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Milo
Catania Post > Blog > Luoghi > Milo, balcone Etneo: vino, boschi e sogni d’estate
Luoghi

Milo, balcone Etneo: vino, boschi e sogni d’estate

Simone Di Trapani
Last updated: Maggio 17, 2025 5:14 pm
Simone Di Trapani - Simone Di Trapani
Published Maggio 17, 2025
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La salita verso Milo, curve dopo curve, è un lento distacco dal Mediterraneo brulicante di traffico e voci; ogni tornante aggiunge un grado di frescura, finché l’aria sa di resina e pietra lavica umida. All’ingresso del paese, un cartello antico promette salus nei suoi boschi: non è semplice marketing rurale, ma una verità che si avverte immediatamente nel respiro più pieno, nella luce limpida che filtra fra i castagni, nel silenzio rotto solo dal ronzio dei grilli.

Di fronte al belvedere, il panorama è un ventaglio cromatico: il blu cobalto dello Ionio si incontra con l’azzurro più tenue dell’orizzonte, mentre alle spalle incombe l’Etna, spesso incoronato da una nube bianca. A mezzogiorno la montagna pare addormentata; al tramonto, quando il sole scende alle sue spalle, il cono diventa una sagoma di fuoco e cenere sospesa sopra la verdezza tenue dei vigneti. È in questa doppia appartenenza – mare e vulcano – che Milo ha costruito la propria identità di rifugio e di frontiera, luogo dove lo scorrere del tempo ha un passo più lento e insieme una potenza tellurica.

La storia inizia a metà Trecento, quando il duca Giovanni d’Aragona elegge questi boschi a residenza estiva: il piccolo oratorio dedicato a Sant’Andrea, sorto per volere del suo seguito, diventa ben presto il nucleo intorno al quale si radunano contadini, carbonai e tagliapietre. Sulle sue pietre di lava si è stratificata l’esistenza operosa di un popolo che, secoli dopo, troverà la forza di ricostruire tutto dopo l’eruzione del 1951. Quel fiume di fuoco lambì le vigne, distrusse le masserie, costrinse gli abitanti a mesi di esilio; eppure fu la scintilla che spinse il paese a cercare l’autonomia, raggiunta nel 1955 con l’orgoglio di chi sa plasmare il futuro come si plasma il ferro rovente.

Nel secondo Novecento Milo diventa calamita di artisti. Il fotografo Wilhelm von Gloeden vi coglie il candore di luci irreali; decenni dopo Franco Battiato vi trova un altrove necessario alle sue ricerche musicali e spirituali. La sua Villa Grazia, immersa in contrada Praino, diventa cenacolo di orchestrali, poeti, registi. Lucio Dalla, conquistato da quell’atmosfera sospesa, compra poco distante una masseria: la ribattezza con autoironia, organizza cene improvvisate, sperimenta un bianco frizzantino che scherzosamente chiama “Stronzetto dell’Etna”. Oggi una statua in bronzo, nella piazza che guarda il mare, li raffigura come due bussole orientate in direzioni opposte – una verso il cratere, l’altra verso l’infinito orizzonte – a ricordare che la musica qui non è ornamento, ma spina dorsale della coscienza collettiva.

Milo è anche il villaggio del Carricante, uva antica che sui terrazzamenti di cenere e sabbia vulcanica, fra seicento e novecento metri, sviluppa acidità e mineralità uniche. Il risultato è l’Etna Bianco Superiore, denominazione esclusiva di questo lembo orientale del vulcano: un vino di montagna vestito d’agrume, capace di invecchiare una decade senza perdere freschezza, compagno ideale di triglie in guazzetto e di pecorini a pasta molle. A fine agosto ogni vicolo profuma di mosto: ViniMilo, la più longeva rassegna enologica dell’Etna, trasforma il borgo in un salotto diffuso dove degustare annate verticali, ascoltare racconti di vignaioli che qui lavorano come orafi – un grappolo alla volta, un sorso alla volta.

Per il viaggiatore la prima tentazione è restare sulla terrazza principale, ordinare una granita di gelsi con brioche e contemplare le navi che puntano lo stretto. Ma sarebbe peccato non inoltrarsi nelle contrade: Fornazzo, la frazione più alta, profuma di funghi porcini e resina; Caselle è un ricamo di vigneti che vira dal verde acido di maggio al giallo caldo della vendemmia; Praino regala scorci intimi su muri a secco e campi di nocciole. Ogni sentiero è un invito alla lentezza, ogni tornante offre un inquadratura diversa del vulcano, come se l’Etna si divertisse a cambiare scenografia a ogni passo.

Chi ama camminare può percorrere la Pineta Cubania e raggiungere, in poco più di venti minuti d’auto, il Rifugio Citelli: qui parte il tracciato dei Monti Sartorius, sette coni del 1865 che sembrano perle nere incastonate in boschi di betulle bianchissime – un contrasto cromatico che, al primo innevamento, lascia senza parole. Più giù, verso Sant’Alfio, vive il Castagno dei Cento Cavalli, albero millenario che la leggenda narra abbia riparato sotto la sua chioma una regina con il suo seguito. Osservarlo all’alba, quando la nebbia si aggrappa ai rami contorti, è fare un salto in un’epoca senza tempo.

Il calendario liturgico coincide ancora con quello agricolo. L’ultima domenica di luglio, giorno di Sant’Andrea Apostolo, la statua del patrono esce dalla chiesa madre stretto fra ceri e grappoli d’uva, simbolo di una benedizione invocata per la vendemmia imminente. I balconi si riempiono di lenzuola ricamate, le campane battono a festa, una banda intona melodie ottocentesche interrotte solo dal crepitio dei piccoli mortai sparati in cielo. È un rito che fonde devozione e agricoltura, fede e speranza in un’annata propizia.

Arrivarci è facile: dall’autostrada A18 si esce a Giarre e si sale per un quarto d’ora fra agrumeti e scorci sulla costa; chi viaggia in autobus conta su poche corse al giorno da Catania, ma sufficiente a un’escursione senza pensieri. In centro i posteggi sono gratuiti e a misura di visitatore, benché nei giorni di festa convenga anticipare i tempi o godersi la breve passeggiata dalla parte bassa del paese.

Per dormire non mancano soluzioni: agriturismi incastonati fra le vigne, B&B ricavati in antiche case di pietra, camere che affacciano su terrazze dove la mattina si serve pane caldo, marmellata di fichi d’india e un espresso che sa di Sicilia profonda. A tavola dominano funghi alla brace, pappardelle al pistacchio, salsicce insaporite con finocchietto selvatico e, in inverno, zuppe di castagne che profumano di camino acceso.

Il momento migliore per visitare Milo va dalla primavera alle prime luci d’autunno: aprile regala tappezzature di ginestre fra le colate antiche, giugno è fresco come una serata settembrina sul litorale, agosto pulsa di concerti nell’anfiteatro all’aperto, settembre profuma di mosto e foglie che virano al rame. D’inverno il paese si ritira in sé, il cratere innevato appare più solenne, il silenzio delle viuzze è interrotto solo dallo scoppiettare dei camini – atmosfera perfetta per chi cerca introspezione e paesaggi spogli ma magnetici.

In fin dei conti Milo non è un semplice punto sulla mappa: è un’esperienza di confine, sospesa fra la musicalità delle onde e il ruggito profondo del vulcano. È il luogo dove il tempo degli orologi si allunga, costretto a piegarsi alla lentezza della vita di paese; dove un bicchiere di vino racconta millenni di eruzioni, e un sentiero fra i castagni diventa meditazione in movimento. Chi arriva con l’intenzione di trattenersi poche ore finisce spesso per restare un giorno in più, conquistato da una Sicilia che non urla ma sussurra, e che nel bosco di Milo continua a mantenere la sua promessa di salvezza.

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